Home

Mercoledì 20 agosto, Terza tappa: Passo di Viamaggio- San Sepolcro (25 km ma anche anche…)

Una puntata da stomaci allenati, tenetevi forte.
Dopo la pappardella sul capriolo, la bistecca di maiale e il chilo di patate arrosto ingurgitate a cena ieri, la sveglia giunge assai malvoluta alle 6:30. Cena peraltro sorbita da solo, in una sala zeppa di commensali ma con pochi pellegrini. Nell’ordine: terzetto alquanto inconsueto di mamma-babbo-figlioveramentepiccolo, signore di mezza età con maglia tecnica di colore rosso e altro uomo sulla quarantina con ai piedi sandali francescani. Ora, va bene che stiamo facendo il cammino del patrono d’Italia, ma mi pare un tantino troppo stare a piedi all’aria a cena. Comunque, un gruppo eterogeneo e poco interessato a fare la gazzarra del dopo pasto che tanto adoro, per cui niente ammazza caffé e dritti a nanna. Dopo difficili e poche ore di sonno causa digestione impegnativa, mi sveglio e trovo al tavolo i primi quattro elementi citati. Ed è bello tornare a condividere un’esperienza con qualcuno, seppur per poco. La famiglia mi racconta di essere di Torino, ma tifosa della Pistoiese. Sì vabbene, ma concedetemi una riflessione: incontrare in provincia di Arezzo una famiglia amaranta innamorata dei piri mi pare oltre ogni aspettativa. Inneggio subito ai colori biancazzurri e li invito in Toscana per il derby, ma la curiosità di vedere un bambino di 6-7 anni in cammino è troppo forte: “Sei un piccolo eroe!” gli dico, e lui ride e risponde “Mi piace camminare”. Ok. Ma da quel che mi ricordo anche io ho avuto sei anni e anche a me piaceva camminare, ma il massimo era fare il chilometro che dalla casa estiva dei nonni arriva alla pizzeria La Diga a Pian degli Ontani. E già mi pareva abbastanza.
L’altro individuo lo vedo bello garoso, sbaglia strada e macina chilometri come un podista da medaglia; sarà per questo che non attira troppo la mia attenzione.
Partiamo scaglionati e non li rivedo sulla strada se non una volta, quasi all’inizio. E qui parte la mia tappa, insolita come ogni giorno. Una tappa che mi ha fatto capire il vero significato della parola fede, al di là di quello che ci raccontano in tanti, perché in fondo è come quando sei all’asilo: le cose le impari più che altro passo dopo passo, affrontando i gangli della vita e mettendoti a nudo di fronte alle prove di ogni giorno (io ad esempio ho associato il colore giallo alla sua idea perché alla scuola materna ho colorato un limone disegnato su un foglio A4).
Parto come sempre ricco di aspettative, ma la giornata si fa subito difficile: bivi segnalati male e strade poco chiare, che sono il vero male di un camminatore solitario. Nonostante le indicazioni per San Sepolcro indichino bel altri sentieri, seguo per Pian delle capanne e arrivo in grandissima agilità alla prima meta, passando per il bellissimo paesaggio dell’Alpe di luna. Via di gran carriera anche verso Montagna, borghetto da cartolina a quota 677 metri sul livello del mare (che qui non sanno manco cos’è). Vado come un treno. Sì infatti, proprio: prima di Montagna, dove il pellegrino incontra nell’ordine un allevamento di asini e un antico fontanile con acqua bionissima, mi inoltro nel bosco, e qui inizia il “vero” racconto di questa giornata. Dopo poche centinaia di metri mi perdo. Il sentiero non è segnato bene, la selva è veramente folta di qualsiasi tipo di pianta e veramente tutta uguale. Niente, devo tornare indietro; sì, ma come? Non riesco a trovare il percorso e sono assalito da un’ansia apocalittica. Almeno fino a quando non incontro un antico mulino (di cui sono rimaste solo tre mura diroccate) e mi ricordo che di lì ci sono già passato. Ottimo, ritrovo il punto di partenza e riparto, alla ricerca del sentiero per arrivare a Montagna. Niente. Perdo un’ ora buona alla ricerca di ‘sti cacchio di segnali, fin quando non mi viene in mente di tornare su, all’antico fontanile, dove avevo visto un bar e una casa. A posto: risalgo e busso al bar. Chiuso. Allora suono alla casa, e mi apre una specie di personaggio che sembra un incrocio tra il vecchio dell’Alpe di Heidi e un hippie che ha perso la strada per il Sessantotto. Gli spiego il problema e lui mi risponde con la massima calma: “Devi guadare il fiume, risalire dall’altra parte e poi seguire quel tubo di plastica nero che pesca proprio dal torrente”. Ah, bono. Riscendo, passo il corso d’acqua a balzelli stile stambecco e mi arrampico sull’altro versante del bosco. Tra rovi, altre piante che non avevo mai visto prima ma che pungono a bestia e una quantità incredibile di alberi fitti fitti, arrivo al sentiero di raccordo del Cammino. Top, alzo le braccia stile rigore segnato al campino di via Leopardi. Se non fosse che inizia a piovere, e rispuntano le mosche cavalline che ieri avevo abbandonato con un po’ di dispiacere. Ma ormai niente può fermare il pellegrino che ritrova la strada: risalgo con molta fatica fino ai monti della valle in cui devo assolutamente trovare l’abitato di Montecasale, e lo trovo, dopo circa un’oretta di cammino. Ed è bellissimo ammirare l’eremo del XII secolo, donato poi nei primi del 1200 a San Francesco dai frati camaldolesi che lo tenevano come un vero gioiello, com’è tuttora. Giusto il tempo di ringraziare la Madonna per avermi fatto ritrovare la strada giusta e poi riparto, ancora nel fitto del bosco, per una discesa tra la selva che dura circa un’ora e mezzo . Mi correggo, che sarebbe dovuta durare circa un’ ora e mezzo, perché mi perdo di nuovo. Ma a ‘sto giro c’è poco da scherzare: dopo aver passato un torrente (forse l’Afra) percorro il sentiero e dopo un po’ mi accorgo che non ci sono più segnali, né del Cai né tantomeno il Tau giallo che indica Assisi ai pellegrini. Il sentiero si fa sempre più impervio, mi porta a una pietraia scoscesa e da lì al nulla. Ho sbagliato percorso, ancora. Ma stavolta la cosa è seria: dopo aver rifatto la pietraia non ritrovo il sentierino e tra massi e alberi folti non riesco a capire dove andare. Il pomeriggio comincia a declinare. Qui non ci sono punti particolari a darmi una mano, sono nel bel mezzo dei monti della Val Tiberina e non so come muovermi. Mi scoraggio, ma pesantemente: faccio per chiamare la guardia forestale, ma il telefono non prendere; grido “aiuto” quelle quattro o cinque volte. Ma poi, a chi? Salgo come un pazzo fino al crinale, ma spezzando rami e facendomi spazio tra rovi. Non ci siamo.
Ed è qui che subentra la Fede, ma quella con la effe maiuscola: aver fiducia che, nonostante tutto, sarei riuscito a dormire a San Sepolcro stanotte. Non importa il come, l’importante è saperlo. Salendo sulla vetta del crinale capisco che non avrei guadagnato nulla; allora mi ricordo del fiumiciattolo che ho oltrepassato: sento rumore di acqua che scorre e capisco che sarebbe bastato riscendere e seguire il corso del fiume per trovare il sasso che mi aveva aiutato a passare dall’altra parte. Il problema è come fare. È presto detto: scivolo tra le frasche col culo a terra e lo zaino pure, perdo la borraccia (la stessa che mi aveva accompagnato fino a Santiago) e il materassino. L’importante è uscire da qual sodo casino in cui mi ero cacciato: arrivo in fondo e guardo il fiume, ma non riconosco nessun punto visibile. Fino a che non vedo il materassino bloccato tra un masso non meglio identificato e il sasso che avevo usato per passare l’Afra. Eccola la Fede, che si rende manifestazione proprio quando sei sul punto di mollare.
Via, veloce: recupero il materassino, lo riaggancio allo zaino e risalgo sul sentiero per tornare all’eremo di Montecasale. Se non che durante il percorso incontro uno strano tipo con scarponi e zaino, che riconosco subito: è il folle che ieri a cena aveva il sandalo francescano. Un saluto veloce e io esordisco: “Senta, da lì in poi il sentiero non è più segnato, io torno all’eremo e prendo la navetta per San Sepolcro. Non ce la faccio più ad azzeccare strade per caso”. Lui, tranquillissimo: “Vieni, proviamo insieme”. Eccolo il co-protagonista di oggi: Don Alfredo, venezuelano di nascita ma impegnato in diocesi a Milano. E parla esattamente come un venezuelo-milanese, stesso strascico tipico dei bauscia e esse a caso in grande stile spagnolo. Un vero mito. Riscendiamo e gli indico il posto dove finisce la segnalazione; lui mi guarda e mi fa: “Diciamo un Ave Maria”. Oh, non ci crederete, ma ZAC appare in un albero in lontananza un Tau giallo: il fiume non andava attraversato, ma tenuto accanto (oh, ma chi cazzo li segna sti sentieri??? Ma io boh…).
Con Alfredo si ritrova la strada e si arriva in un’oretta e qualcosa a San Sepolcro. Dove non poteva mancare la preghiera nella cattedrale di San Giovanni e una mega schiacciatona al prosciutto (maquellobono) presa all’alimentari della piazza principale.
Domani arrivo (speriamo) a Città di Castello, son più di 33 chilometri. Per non saper né leggere né scrivere ho fissato alle sette in centro a San Sepolcro con don Alfredo. Magari mi salva anche a questo giro.

Cosa che ho imparato oggi: La vita mi sembra parecchio come il sentiero in salita al Passo di Viamaggio: stretta, piena di rovi e in mezzo alla nebbia, ma con una marea di fiori colorati ai lati. Sta a me decidere dove buttare l’occhio.
Cosa che mi porterò in tasca domani: Il “proviamo insieme” di don Alfredo… Perché se una cosa la fai in due, viene troppo meglio. Sempre.

Lascia un commento